Jada Parisi, la Sommelier col caschetto

di Gea Calì

Jada Parisi, la Sommelier caschetto e frangia dall’allure romantico e minimal chic.

Un tempo, come da tradizione nella quasi totalità dei paesini di campagna e di montagna si nasceva in casa e Jada Parisi, classe ’74, nasce nel letto di nonna Santina, a Santa Lucia del Mela, un piccolo borgo che sorge nell’entroterra tirrenico arroccato sulla collina a dominare la città di Milazzo. In realtà cresce a pochi chilometri di distanza, a Gualtieri Sicaminò, piccolo comune abitato da poco più di 3000 anime. Ma è in quella casa di campagna di nonna Santina che Jada matura un imprinting tale che ne formerà la personalità e il carattere. Nel 2008 consegue il diploma di Sommelier AIS presso la delegazione Messina Tirrenica – sez. Milazzo – guidata dal delegato Prof. Nicola Caravello e successivamente ottiene anche l’abilitazione a Degustatore AIS. Dopo diversi anni di esperienza nel settore della ristorazione, nel giugno del 2017 arriva la svolta, Jada approda al Signum, Boutique Hotel di charme, 1 stella michelin, nel cuore di Salina nelle Isole Eolie.

Chi o cosa ti ha portato nel mondo del vino?

Sono cresciuta in campagna tra le raccolte di fine estate, da quella dei pomodori, con i quali facevamo le conserve di salsa, a quella delle olive in autunno, passando per la vendemmia dell’uva. Erano giorni di festa, ma si lavorava davvero tanto. Non ho mai saputo con esattezza quali uve vendemmiassimo, quella bianca era con molta probabilità Zibibbo, quella nera resta un mistero, anche se oggi credo si trattasse di Nocera e Calabrese. Se torno indietro con la memoria, rivivo quelle giornate nel Palmento, tra cassette piene d’uva e milioni di moscerini in festa ad aspettare che arrivasse il nostro turno, e quell’odore indimenticabile del mosto che finalmente arrivava nelle botti in cantina. Errori e malpractice durante la vinificazione ce n’erano diversi, ma allora non li capivo, così come non capivo le dinamiche intorno al vino, i discorsi tra i contadini, le credenze che li portavano a fare una scelta piuttosto che un’altra. Questi erano i miei fine settimana tra la fine dell’estate e l’autunno, e li amavo a tal punto che non ne immaginavo di diversi. Poi crescendo la mia curiosità verso il vino venne fuori, e appena possibile cercavo di leggere e comprendere.

La prima cantina che hai visitato? E l’ultima?

La mia prima visita in cantina fu da Donnafugata, l’ultima da Caravaglio. Con Nino Caravaglio ci vogliamo bene e durante l’estate vivo a Salina, vicino la sua cantina, così spesso mi capita di trascorrervi del tempo e assaporare il profumo dell’isola degustando un suo calice di vino.

Ci racconti qual è stata l’esperienza “enologica” legata ad un incontro che ti ha lasciato un segno?

Gli incontri al Signum sono continui, diversi e imprevedibili. Questo grazie a Luca Caruso, patron e autore della “Sua” straordinaria cantina, che alla stregua di un grande vino, matura e si evolve, diventando sempre più complessa e tappa obbligatoria per i più grandi enofili e professionisti del settore, che hanno raggiunto questo luogo e partecipato ai tanti eventi organizzati. Numerosi i vignaioli che hanno calcato le scene del Signum con i loro racconti. Ricordo con tanta stima Giusto Occhipinti, Cantina COS, che due estati fa raccontava, durante un pranzo, la genesi del suo lavoro e le sue idee, lasciando tutti affascinati. Un altro grande personaggio che mi viene in mente è sicuramente Salvatore Geraci, uomo dalla cultura, dal talento e dalla simpatia travolgenti. Attraverso questo luogo gli incontri sono stati anche virtuali perché un tale caleidoscopio di etichette e nomi diversi, ti stimola a scoprirne le storie e i creatori. Quindi potrei dire che ascolterei per ore la saggezza commovente che ci ha lasciato Gianfranco Soldera, così come l’originalità e la poesia di Nicolas Joly. È un luogo al quale devo molto e nel quale ogni giorno può esserci un incontro e una scoperta diversa.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

Ciò che continuo ad amare del mio lavoro è il lungo (infinito) viaggio attraverso la conoscenza del vino. Noi degustatori ci evolviamo, cambiano gli approfondimenti e le scelte. All’inizio siamo curiosi e disorientati, come un mosto in fermentazione, senza ancora consapevolezza di cosa diventerà, di cosa diventeremo. Studi le uve, i territori, le grandi realtà enologiche, i nomi-mito, e scopri che esiste un olimpo enologico. Man mano che maturi, inizi a sedimentare tutte queste informazioni, a percepire cosa senti tuo e quale sia la tua idea di vino e di lavoro in vigna, così riesci naturalmente a fare delle scelte.

Quale caratteristiche deve avere il vino che selezioni per la tua cantina personale?

Oggi le storie alle quali mi avvicino con vero interesse, con autentico amore, sono quelle dei vignaioli che hanno fatto un percorso autonomo, spesso recidendo eredità anche comode e cordoni ombelicali con il passato. Provo un senso di gratitudine quando leggo le storie di riconversione, di piccoli vignaioli che in un mondo popolato da giganti e nomi altisonanti, si inginocchiano nei loro filari e decidono di curare le terre che maldestramente e a volte inconsapevolmente, i loro stessi padri avevano massacrato. Nella mia idea di vino e di studi intorno ad esso, credo che andrebbe sempre più incoraggiata un’idea di comprensione, di amore, di gentilezza. Per lo stesso motivo, non si può, secondo me, scindere la conoscenza e l’approfondimento del vino, ignorando o dando meno valore a tutte le vite che regnano attorno ad una vite: la biodiversità, la vegetazione, le persone che lavorano tra i filari e la terra. Mi accorgo che a vent’anni non avevo la sensibilità che mi investe oggi, tutto è collegato da un filo sottile che spiego a me stessa unicamente attraverso la parola “consapevolezza.”

Si dice sempre che il vino è cultura e questo è assolutamente esatto, ma secondo me è importante anche dire che un vino deve sviluppare in noi una coscienza critica, interrogarci su cosa vorremmo ci fosse dietro quel calice e quanto il risultato finale debba pesare sulla terra che ha partorito quelle uve.

A proposito di “consapevolezza”, ho scoperto che sei una brava cuoca con una particolare attenzione per la cucina naturale e sana. Cosa pensi dei prodotti Biologici?

Nella mia idea di cucina è tutto abbastanza connesso. Credo nella sacralità della terra, dei grappoli, degli animali, delle stagioni e nel rispetto dei frutti che le accompagna, senza forzature, per questo motivo non amo la parmigiana a dicembre e non mi interessa da tempo mangiare in maniera convenzionale. Mi piace raccogliere erbe commestibili, e cucinare in maniera politica, senza forzatura, basta mettere amore e pazienza, senza ingredienti aristocratici che non mi somigliano per nulla. Ho una curiosità fortissima verso ciò che Madre Natura ci dona, così nel 2012 ho fatto il corso di assaggiatrice di oli siciliani e nel 2017 quello di raccoglitore di funghi. Da una decina di anni ho scelto di essere vegana, anche se già dal lontano maggio del ’97 non mangio più carne e pesce. Ricordo che non era ancora un regime alimentare diffuso e mia madre mi vedeva come una “malata”.

Quale vino sceglieresti per una cena ideale?

Per una cena ideale mi piacerebbe consigliare un percorso attraverso il nostro territorio, pertanto inizierei con una bollicina perché trasmette sempre quell’aspettativa di festa, di joie de vivre, quindi opterei per il Mira di Porta del Vento. Poi continuerei con un Etna Bianco Doc, il Calderara Sottana “Cuvée delle Vigne Niche” 2017 di Tenuta delle Terre Nere, un vino che mi impressiona sempre. Per concludere, sceglierei un passito di Malvasia delle Lipari di Caravaglio, con la sua 2018 sarebbe una bellissima conclusione. Se invece dovessi scegliere per me, mi piacerebbe bere un vino del territorio che mi ospita e mi piace essere consigliata, lasciarmi guidare.

Qual è secondo te il valore aggiunto, la diversa prospettiva o sensibilità di una donna in questo campo?

Il punto di vista femminile è esattamente il valore aggiunto. Credo che nell’approccio al vino una donna abbia una sensibilità profonda e ancestrale, una visione più ampia, a 360°. C’è un contatto quasi materno e un senso di protezione più forte che ci rende più intuitive. Ascoltare le storie di vino raccontate al femminile mi ha sempre affascinato. Mi sconvolge ascoltare Lelou Leroy con il suo entusiasmo, la sua grazia infinita e il suo genio. O la forza e la fierezza di Arianna Occhipinti e l’energia bellissima di Chiara Pepe.  No, questo non è un mondo al maschile… Che si sappia!

Il tuo vino “del cuore”?

Non ho un vino del cuore, le mie simpatie enoiche camminano con il percorso di chi crea quella bottiglia e con le dinamiche che si creano quando la bevo. Conservo un ricordo di mio padre, che era un calciatore, e mi torna sempre in mente nell’approccio alle cose. Lui non aveva una squadra del cuore, ogni anno era diversa ma era sempre quella con meno seguito, la meno acclamata. Amava le cose piccole, le cose meno “potenti”, e in questo siamo molto simili. Posso dire però che c’è una bottiglia di vino nella mia cantina che mi è stata regalata da mia sorella, per la quale ho un amore immenso. Ecco, quella bottiglia la amo talmente che non riesco ad aprirla, Chablis grand cru Les Clos 2007 di Albert Pic. Ed ancora il Vecchio Samperi di De Bartoli, ogni volta una emozione, come anche il Cupo 2013 di Pietracupa.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Più che un sogno nel cassetto, è come immagino me stessa un domani. Mi piace immaginarmi in un disordinato, ma sano, fazzoletto di terra. Chissà, forse, provando anche a fare il mio vino. Non mi interessa immaginarmi ricca, ma vecchia e piuttosto felice.

Jada Parisi Sommelier Hotel Ristorante Signum di Salina