Il Ragù Napoletano, quando l’odore invade le case.

di Pasquale Davide Longo

A Napoli ci sono tre cose intoccabili: San Gennaro, Maradona, e la cucina delle mamme, compreso il ragù.

E’ proprio in quest’ultimo concetto che affondano le radici moltissimi piatti della tradizione gastronomica napoletana come il ragù, “o’ rrau” detto in lingua partenopea.

Per i napoletani veraci questo piatto non è un semplice ragù di carne ma molto di più. E’ un rito irrinunciabile, il piatto domenicale per antonomasia, un inno alla tavola, alle tradizioni familiari, ma soprattutto il piatto che va a suggellare l’unione e la condivisione.

E’ così famoso da essere decantato anche da Eduardo De Filippo in una simpatica poesia intitolata proprio‘O rraù”.

Proprio dietro questa poesia si cela una delle tante storie che accompagnano questo piatto.

Ovvero, quando il grande Eduardo De Filippo scrive: “O’ rrau ca me piace a me, m’ ‘o faceva sul’ mammà” si riferisce ad una leggenda che vede protagonista le mamme degli sposi napoletani che il giorno prima del matrimonio come atto di accettazione in famiglia delle neo spose, consegnavano a queste la ricetta del ragù, omettendo però qualche ingrediente in modo da costringere i figli maschi a far sempre ritorno a casa per degustare il vero ragù.

Le origini di questo piatto sono molto antiche e non prive di leggende, miti e aneddoti misteriosi che nel corso degli anni si sono romanzati e tramandati da famiglia in famiglia.

C’è chi racconta che a Napoli il ragù era presente già verso la fine del 1300, anche se all’epoca il pomodoro ancora non esisteva. C’è chi, invece, narra che derivi da un piatto tipico della cucina provenzale francese “il daube de boeuf”, stufato di carne e verdure cotto lentamente in una terrina di creta, dal sapore molto appetitoso. Ragoutant, in francese significa, appunto, appetitoso.

Altre storie, portano al tempo di Carolina d’Asburgo Lorena, moglie di Ferdinando IV, re di Napoli e delle due Sicilie che, introdusse nelle cucine dei palazzi nobili, la moda dei cuochi francesi e di un piatto molto simile al ragoutant, ma ancora senza l’uso del pomodoro che veniva chiamato ragout.

Le prime testimonianze scritte dell’uso del pomodoro nel ragout, risalgono alla fine del 1700, nell’opera “Il cuoco galante” di Vincenzo Corrado e successivamente nell’opera “Usi e costumi di Napoli” di Carlo Dal Bono a metà 1800.

 Successivamente si inizia a diffondere anche il termine “a passiat do rraù”, ovvero l’usanza dei giovani napoletani che la domenica mattina passeggiando per i quartieri della città annusavano l’intrigante odore del ragù, stilandone, poi, una graduatoria di gradimento olfattivo e immaginandone anche l’aspetto gustativo.

“‘A passiata do rraù” consentiva a quei ragazzi, di individuare, olfattivamente, ‘o bbuono e ‘o mmalamente, intendendo per tale considerazione il vero ragù o, come si suole dire “’o finto rrau’”, comunque fatto di sugo di pomodoro, ma carente di carne nelle sue molteplici qualità.

 

Ciò che è certo, è che da allora, l’odore del ragù non ci ha più lasciati, anzi, ha iniziato a diffondersi per tutte le strade e i vicoli di Napoli fino ad arrivare ai giorni d’oggi in cui l’odore inconfondibile e intenso al tempo stesso, invade le case suggellando l’arrivo della domenica.Anche la ricetta, o le ricette per meglio dire, che si tramandano da madre in figlia, sono ricche di variazioni o di aggiunte a seconda del quartiere o della zona geografica in cui lo si prepara. Sull’utilizzo delle carni c’è chi preferisce parti del maiale, chi invece predilige manzo o vitello. La lista sarebbe molto lunga, ma se volete conoscere tutti i tagli, basta guardare Sophia Loren che, in un’esilarante scena del film “Sabato, domenica e lunedì” di Lina Wertmuller, discute animatamente con altre signore sul miglior modo di preparare il ragù.

Una sola cosa accomuna tutte le ricette, la lunga preparazione, da 7 a 10 ore, tant’è che si dice che il ragù non si prepara, ma si consegue e si conquista, alla stregua di una promozione o di un successo. E la “pappuliatura” o “pippiatura”, termine onomatopeico che indica la fase che precede la cottura, a quando dal fondo della pentola, dove è in cottura la carne con il pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie bolle che rompendosi producono un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo da una pipa.

Da questo si capisce che il ragù si cucina con gli occhi, col naso, ma anche con le orecchie. Si perché, solo dopo che la salsa ha pippiato o pappuliato per più di un’ora, si può esser certi che il ragù sia conseguito.

Personalmente inizio la preparazione del mio ragù il sabato, come vuole la tradizione napoletana utilizzando una pentola di rame molto capiente.

La salsa è rigorosamente un mix di pomodoro San Marzano e pomodorini rossi del Vesuvio, che ogni estate preparo con cura e dedizione.

Non possono mancare le polpette, le braciole di scottona ripiene di aglio, prezzemolo, pepe, e pinoli, salsicce a punta di coltello, costine di maiale e muscolo di vitello.

La preparazione inizia dalla rosolatura della carne con olio evo (meglio se bio), un pò di sugna (quella vera) e una bella cipolla ramata tagliata finemente.  Quando la carne sarà caramellata su tutti i lati, sfumate col vino rosso e una volta evaporato aggiungete pomodoro e acqua in eguali quantità. Coprite e fate cuocere per almeno 8-10 ore.

Molto importante è anche la scelta della pasta che deve essere rigorosamente trafilata al bronzo.

Per le quantità fate voi, ma basta che siano ziti o candele spezzate a mano.